effetto fotoelettrico

Effetto fotoelettrico. Esercizi svolti

Alla fine del ventesimo secolo alcuni fisici tra cui Hertz, Thomson e Von Lenard osservarono che se un metallo era colpito dalla luce  emetteva elettroni e chiamarono questo fenomeno  effetto fotoelettrico. All’epoca la luce era trattata secondo i canoni della fisica classica come un’onda.

I fisici quindi ritennero che se il metallo veniva colpito da una luce più intensa gli elettroni avrebbero dovuto acquistare un’energia cinetica maggiore rispetto a quella che avrebbero posseduto se il metallo veniva colpito da una radiazione meno intensa. Von Lenard, tuttavia, osservò che quanto ipotizzato avvalendosi delle conoscenze di allora non avveniva infatti l’intensità della luce non modificava l’energia degli elettroni emessi. Fu inoltre osservato che gli elettroni venivano emessi non appena la luce colpiva il metallo.

dispositivo di misurazione
dispositivo di misurazione

Per spiegare l’effetto fotoelettrico, i fisici del XIX secolo teorizzarono che il campo elettrico oscillante dell’onda luminosa in arrivo riscaldava gli elettroni e li faceva vibrare, liberandoli infine dalla superficie metallica. Questa ipotesi si basava sul presupposto che la luce viaggiasse puramente come un’onda attraverso lo spazio.

Gli scienziati credevano anche che l’energia dell’onda luminosa fosse proporzionale alla sua luminosità, che è correlata all’ampiezza dell’onda. Per verificare le loro ipotesi, hanno eseguito esperimenti per osservare l’effetto dell’ampiezza e della frequenza della luce sulla velocità di espulsione degli elettroni, nonché sull’energia cinetica dei fotoelettroni.

Einstein risolse tale problema proponendo che la luce avesse oltre alla natura ondulatoria anche quella particellare e pertanto la luce dovesse essere costituita da pacchetti di energia detti quanti (chiamati in seguito fotoni) che interagivano con gli elettroni del metallo: ciascun fotone che colpiva il metallo trasferiva la sua energia a un elettrone del metallo.

Energia del fotone e effetto fotoelettrico

L’energia del fotone è data dall’espressione E = hν = hc/λ dove h è la costante di Planck, ν è la frequenza della radiazione, c la velocità della luce e λ la lunghezza d’onda. Per estrarre un elettrone dal metallo è necessaria un’energia detta lavoro di estrazione o funzione lavoro e  indicata con il simbolo φ

L’energia rimasta come l’energia cinetica Ek dell’elettrone emesso è data dalla differenza tra l’energia del fotone e quella necessaria per l’estrazione dell’elettrone:

E = hν – φ

Aumentando l’intensità della luce non cambia la lunghezza d’onda e quindi gli elettroni vengono emessi con la stessa energia cinetica.

Con tale geniale intuizione fu risolto il paradosso e si dimostrò la duplice natura della luce. Per tale teoria e per la spiegazione dell’effetto fotoelettrico Einstein vinse il Premio Nobel.

effetto fotoelettrico
effetto fotoelettrico

Un aumento dell’intensità della luce infatti implica solo che è presente un maggior numero di fotoni. Quindi l’unica conseguenza di un aumento di intensità della luce è quello che un maggior numero di fotoni colpisce il metallo. Pertanto è estratto  un maggior numero di elettroni .

La scoperta e la comprensione dell’effetto fotoelettrico costituirono una delle scoperte più importanti del ventesimo secolo in quanto si è scoperta la natura della luce. Se da un lato la natura ondulatoria della luce fornisce una adeguata descrizione di fenomeni quali diffrazione e interferenza dall’altro l’effetto fotoelettrico ne dimostra la natura particellare.

Dualismo onda-particella

Tale caratteristica è conosciuta come dualismo onda-particella.

Dalle caratteristiche del legame metallico sappiamo che il metallo contiene elettroni liberi di muoversi tra la banda di conduzione e la banda di valenza. Quando un fotone colpisce la superficie di un metallo esso dà tutta la sua energia ad un elettrone del metallo.

dualismo onda particella
dualismo onda particella

Se l’energia del fotone è uguale alla differenza di energia tra due livelli energetici l’elettrone passa ad un livello ad energia maggiore. Se l’energia del fotone è maggiore o uguale alla funzione lavoro ovvero all’energia necessaria per estrarre l’elettrone quest’ultimo è emesso dalla superficie del metallo.

La funzione lavoro è diversa a seconda del metallo. I metalli con una bassa funzione lavoro sono buoni conduttori in quanto ciò implica che gli elettroni sono debolmente legati e più liberi di muoversi.

Ciò diminuisce la resistenza del materiale ad essere attraversato da un flusso di corrente.

Tabella

Sono riportate le funzioni lavoro di alcuni elementi:

 

Elemento

Funzione lavoro J

Alluminio6.9 ∙ 10-19
Berillio8.0 ∙ 10-19
Calcio4.6 ∙ 10-19
Rame7.5 ∙ 10-19
Oro8.2 ∙ 10-19
Piombo6.9 ∙ 10-19
Silicio1.8 ∙ 10-19
Argento6.9 ∙ 10-19
Sodio3.7 ∙ 10-19

Esercizi

1)      Una radiazione ultravioletta avente lunghezza d’onda di 250 nm colpisce un foglio di argento ( φ = 6.9 ∙ 10-19 J). Calcolare la massima energia cinetica emessa dall’elettrone

Applicando l’equazione Ek = Efotone – φ e sostituendo all’energia del fotone l’equazione Efotone = hc/λ si ha:

Ek = hc/λ – φ

Convertiamo in metri la lunghezza d’onda:

250 nm = 2.50 ∙ 10-7 m

Ricordando che la costante di Planck h = 6.63 ∙ 10-34 m2Kg s-1 e che la velocità della luce c = 3 ∙ 108 m s-1 si ha:
Ek = hc/λ – φ = (6.63 ∙ 10-34 m2Kg s-1 x  3 ∙ 108 m s-1/ 2.50 ∙ 10-7 m = 1.06 ∙ 10-19 Kg m2 s-2 = 1.06 ∙ 10-19 J

2)      Una radiazione UV avente ν = 1.2 ∙ 1015 Hz colpisce un foglio d’oro ( φ = 8.2 ∙ 10-19 J). Valutare se tale radiazione è in grado di estrarre gli elettroni dal foglio di oro.

Calcoliamo l’energia del fotone incidente:
Efotone = hν = 6.63 ∙ 10-34 m2Kg s-1∙  1.2 ∙ 1015 s-1 = 7.96 ∙ 10-19 J

Essendo l’energia del fotone minore rispetto alla funzione lavoro tale radiazione non è in grado di estrarre elettroni

Risulta conveniente quando si lavora con numeri così piccoli usare una unità di misura diversa per l’energia. In ambito atomico o subatomico al posto del Joule si usa l’elettronvolt ( eV). Esso corrisponde all’energia guadagnata da un elettrone quando è mosso nel vuoto tra due punti di una regione in cui ha sede un potenziale elettrostatico tra i quali vi è la differenza di 1 volt:

E = q ∙ V

Dove q è la carica di un elettrone ( 1.610 ∙ 10-19 C); quindi il fattore di conversione tra eV e J è:

1 eV = (1.610 ∙ 10-19 C) (1 V) =  1.6 ∙ 10-19 J quindi

1 J = 6.241 ∙ 1018 eV

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